Con l’ordinanza n. 16607 del 14 giugno 2024, la Suprema Corte di Cassazione, I Sezione Civile, si è pronunciata in materia di rinuncia alla pretesa creditoria da parte della società cancellata dal registro delle imprese, precisando che la mera espunzione dal registro non importa necessariamente la remissione della pretesa azionata in giudizio.
Il caso
Con la sentenza n. 641/2020, la Corte d’Appello di Bari accoglieva il ricorso presentato da una Banca avverso la pronuncia del Tribunale di Trani, sez. distaccata di Andria, che aveva condannato l’istituto al pagamento, in favore di una S.n.c., di una somma di denaro a titolo di restituzione delle somme indebitamente ricevute per effetto dell’applicazione di interessi passivi in misura ultra legale in difetto di apposita pattuizione, della capitalizzazione trimestrale degli interessi, dell’addebito di commissioni di massimo scoperto, etc.
Nello specifico, la Corte territoriale aveva accolto il primo motivo di ricorso dell’appello principale, ritenendo che l’intervenuta cancellazione volontaria dal registro delle imprese della S.n.c., prima che il credito vantato in giudizio fosse accertato, costituisse espressione della volontà di rinuncia tacita al diritto litigioso.
Pertanto, il giudice d’Appello dichiarava cessata la materia del contendere in ragione della verificazione di un fatto sopravvenuto che aveva eliminato ogni contrasto tra le parti.
Avvero tale decisione, proponeva ricorso per cassazione un ex socio della società estinta, nella qualità di successore della medesima, affidandosi a ben 7 motivi.
La Suprema Corte di Cassazione riteneva fondato il sesto motivo di ricorso e dichiarava assorbiti tutti gli altri.
L’Ordinanza n. 16607 del 14 giungo 2024
Il ricorrente, in particolare, aveva denunciato con il sesto motivo di ricorso la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2308, 2312, e 2495, c.c., e 110, c.p.c., per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto che la cancellazione della società correntista del registro delle imprese denotasse la volontà della medesima di rinunciare al credito azionato nei confronti della banca.
Gli Ermellini non hanno condiviso l’orientamento della Corte territoriale sostenendo che la remissione del debito per effetto della cancellazione dal registro delle imprese sia solo una delle varie evenienze possibili, pertanto, il fatto che questa sia chiesta ed eseguita è insufficiente a dimostrare l’avvenuta remissione del credito azionato.
Per vero, nel prosieguo del l’argomentazione, il Supremo Consesso ha ritenuto assolutamente probabile e ragionevole che la cancellazione possa al più importare un “mero” trasferimento dei diritti della società in capo ai soci che la compongono.
Confermando, dunque, che la remissione richiede una prova rigorosa che si sostanzia nell’inequivocabile volontà espressa da chi la realizza, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva il sesto motivo di ricorso dichiarando tutti gli altri assorbiti.
La massima
“Si deve escludere che la mera cancellazione di una società dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua evidente equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne la remissione del credito fatto valere in giudizio, la quale deve essere, invece, allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione dichiarazione ad uno specifico creditore. Ne consegue che, in difetto di altri indici univoci sulla volontà remissoria può ragionevolmente ritenersi che sia avvenuta, per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, un trasferimento dei diritti di quest’ultima ai soci”.