Con l’ordinanza n. 13561 del 16 giugno 2024, la Suprema Corte di Cassazione, I Sezione Civile, si è pronunciata in materia di qualificazione come patto parasociale della scrittura privata tra soci, avente ad oggetto l’efficacia dell’uscita dalla società di uno dei soci stipulanti.
Il caso
Con ricorso per Cassazione affidato a ben 4 motivi, una società in accomandita semplice impugnava la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Trieste, la quale, in riforma della statuizione di primo grado, revocava il Decreto Ingiuntivo emesso in favore della società.
In particolare, la Corte territoriale aveva osservato che la scrittura privata del 1° febbraio 2001, dedotta dalla società ingiungente come “prova scritta” del suo credito – credito consistente nell’impegno di un soggetto a pagare pro quota le rate di un mutuo contratto dalla società, quantunque contestualmente le sue quote venissero cedute al fratello con il consenso dell’accomandatario – non poteva essere utilizzata dalla società a proprio favore, atteso che la stessa doveva qualificarsi come un patto parasociale tra i soli soci, in cui mai era menzionata la società.
Altresì, nell’ambito della scrittura privata, nessun soggetto coinvolto aveva speso la propria qualità di amministratore; pertanto, ne derivava la carenza di legittimazione attiva della società a far valere le obbligazioni derivanti dalla detta scrittura.
L’Ordinanza n. 13561 del 16 maggio 2024
Il ricorrente, all’atto del ricorso, denunciava quanto segue:
1) errore della sentenza nella parte in cui negava la sussistenza della legittimazione attiva in capo alla società in quanto la manifestazione del potere di rappresentanza non richiede l’uso di formule sacramentali ma deve essere dedotta da circostanze concrete. In breve, l’omessa spendida del nome non dimostra in maniera inequivocabile che non sussistesse la volontà di riferire le pattuizioni contenute nella scrittura privata alla società medesima;
2) errore della sentenza per avere qualificato la scrittura provata in termini di patto parasociale senza peraltro specificarne la forma, tra quelli di cui all’art. 2341 bis, c.c.;
3) errore della sentenza nella parte in cui non ha inquadrato la fattispecie di riferimento in termini di accollo;
4) falsa applicazione dell’art. 2252, c.c., poiché la corretta interpretazione della scrittura provata avrebbe dovuto ricondurre la medesima nell’alveo dell’accollo e non in quello di un accordo sulla cessione di quote con effetti modificativi del contratto sociale.
Gli Ermellini riteneva tutti e 4 i motivi, esaminati congiuntamente per ragione di connessione, fondati.
In particolare, la Corte, premesso che la spendita della qualità di legale rappresentante non richiede formule sacramentali, ha chiarito che il patto parasociale trova il proprio elemento qualificante nella distinzione rispetto al contratto di società ed allo statuto della medesima, in quanto realizza una convenzione con cui i soci attuano un regolamento complementare a quello sancito nell’atto costitutivo e poi nello statuto della società, al fine di tutelare più proficuamente i propri interessi.
La validità di queste pattuizioni può dirsi in linea di principio assodata ed emerge, in modo ormai diretto, dalla previsione normativa dell’art. 2341-bis c.c., introdotto dalla Riforma del diritto societario del 2003, che prevede che non possano avere una durata superiore a 5 anni – salvo rinnovo – quei patti che:
al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società:
a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano;
b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;
c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società.
Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte di Cassazione ha escluso, nel caso di specie, che la scrittura privata tra soci di una società di persone sia riconducibile alle ipotesi tipizzate di cui all’art. 2341 bis, c.c., lett. a), b) e c), rimettendo al giudice del rinvio la corretta qualificazione del negozio.
La massima
“con l’espressione patto parasociale si intende quell’accordo contrattuale che intercorre fra più soggetti (di norma due o più soci, ma anche tra soci e terzi), finalizzato a regolamentare il comportamento futuro che dovrà essere osservato durante la vita della società o, comunque, in occasione dell’esercizio di taluni diritti derivanti dalle partecipazioni detenute.
Il patto parasociale trova, quindi, il proprio elemento qualificante nella distinzione rispetto al contratto di società e allo statuto della medesima, in quanto realizza una convenzione con cui i soci attuano un regolamento complementare a quello sancito nell’atto costitutivo e poi nello statuto della società, al fine di tutelare più proficuamente i propri interessi.
La validità di queste pattuizioni può dirsi in linea di principio assodata ed emerge, in modo ormai diretto, dalla previsione normativa dell’art. 2341-bis cod. civ., introdotto dalla Riforma del diritto societario del 2003, che prevede che non possano avere una durata superiore a 5 anni – salvo rinnovo – quei patti che
“al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società: a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società”.
Una previsione che implica il riconoscimento da parte del legislatore della meritevolezza e della tutelabilità dei patti parasociali, da ritenere dunque sempre validi, purché non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento in materia societaria”.