Determinazione giudiziale del giusto salario minimo, ex art. 36 Cost., alla luce della direttiva UE 2022/2041

La Sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023 della Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio dell’assoluta prevalenza della nozione di salario minimo costituzionale, quale parametro per la valutazione giudiziale dell’adeguatezza della paga, anche in presenza di un CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) teoricamente applicabile ma inadeguato in concreto. Per la dovuta verifica rileveranno, in particolare, la misura del «trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe» e, all’occorrenza, quella determinabile con richiamo agli «indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041», i cui obiettivi dichiarati sono: la «dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà».

Indice

 

Il caso

La controversia traeva origine dalla domanda giudiziale di Tizio, volta a ottenere il riconoscimento della «non conformità ai parametri dell’art. 36 Cost.» del trattamento retributivo che gli era stato praticato da parte datoriale. Il salario, nel caso di specie, era «quello previsto per il livello D della sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari». Il giudice di primo grado, sulla scorta delle buste paga allegate, aveva riscontrato l’inadeguatezza di questo livello salariale e, conseguentemente, aveva «accertato il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati». La società cooperativa Beta veniva pertanto condannata «al pagamento della somma lorda di Euro 2.493,13 a titolo di differenze retributive […] oltre accessori e spese di lite».

La Corte d’Appello ribaltava la decisione del giudice delle prime cure, poiché la cooperativa, a suo avviso, aveva correttamente applicato ai propri lavoratori dipendenti il contratto collettivo «che atteneva al suo settore di operatività ed era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale». Inoltre – sempre secondo il collegio del gravame – «quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale» non dovrebbero mai essere sottoposti alla «valutazione di conformità ex art. 36 Cost.», in quanto, l’accordo sindacale produrrebbe una sorta di insuperabile «presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza», delle poste retributive dell’accordo, in applicazione del «principio dell’autonomia sindacale art. 39 Cost., comma 4, alla quale nell’attuale quadro normativo la contrattazione collettiva è demandata in via esclusiva». Il potere di intervento del giudice, secondo la Corte d’Appello, non potrebbe,  insomma, spingersi fino al punto di «sindacare i livelli retributivi al fine di scegliere quello più alto», utilizzando gli «altri contratti collettivi citati come parametri di confronto (CCNL Multiservizi, CCNL terziario, CCNL per i dipendenti di proprietà e di fabbricati)», anche in considerazione del fatto che questi contratti «riguardavano comunque settori differenti». Nello specifico, i giudici di secondo grado ritenevano che fosse anche erronea la scelta operata dal Tribunale, in quanto la nozione di salario minimo costituzionale dovrebbe «fare riferimento al trattamento economico globale comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 470/2002 (Cass. 5934/2004)», dato che «la lesione dei criteri di proporzionalità e sufficienza» lo scrutinio di adeguatezza non può essere «sulla singola clausola retributiva» ma deve sempre «tener conto del complessivo assetto della retribuzione vale a dire della sua globalità e non delle singole componenti (Cass. n. 162/2009, Cass. 6962/16, 23696/16)». Da ultimo, il collegio del gravame censura l’operato del giudice di primo grado anche con particolare riferimento alla scelta di usare come parametro comparativo il «valore soglia di povertà assoluta indicato dall’ISTAT», in quanto «valore monetario riguardante la spesa per consumi sostenuta da ciascuna famiglia», e quindi «determinato in relazione a diverse variabili», tali per cui esso «non poteva fornire un criterio utile per l’individuazione della retribuzione sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.».

Conseguentemente, Tizio decideva di ricorrere per cassazione, articolando le sue doglianze in cinque motivi. Resisteva – con controricorso – la Società Cooperativa Beta.

 

La Sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023

La sentenza in commento smonta punto per punto tutte le erronee argomentazioni utilizzate dalla Corte d’Appello, ripercorrendo – col tipico stile della sentenza-trattato – l’iter giurisprudenziale relativo alla questione dell’adeguamento giudiziale dei salari negoziali al minimo costituzionale ex art. 36, con specifiche integrazioni e aggiornamenti, che conseguono all’emanazione della Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea.

Nozione di giusto salario – Il principio cardine che la Suprema Corte ha voluto ribadire con forza è quello del carattere non negoziale della nozione di giusto salario costituzionale ex art. 36 Cost. A prescindere, cioè, dalla risoluzione della vexata quaestio della mancata attuazione dell’art. 39 Cost., anche in presenza di un meccanismo perfetto per l’applicazione del quarto comma e quindi di una piena e incontestabile «efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce», resta ferma la sindacabilità in concreto dei minimi retributivi previsti dal relativo CCNL, ogni qual volta il trattamento retributivo non risulti conforme ai parametri di adeguatezza che la disciplina costituzionale dell’art. 36 ha inderogabilmente predefinito a monte.

La Corte evidenzia in particolar modo il fatto che il principio costituzionale in commento postula «una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi». La sufficienza del trattamento retributivo è parametro complementare a quello della proporzionalità e, assieme, questi due requisiti «costituiscono limiti all’autonomia negoziale anche collettiva, così come del resto accade nei commi successivi dell’art. 36». Gli «ulteriori limiti costituzionali alla durata sia della giornata lavorativa, sia della settimana e dell’anno di lavoro» definiscono, in definitiva, il perimetro invalicabile e intoccabile di quel lavoro su cui si fonda la nostra Repubblica: un lavoro che ha natura strumentale e funzione di emancipazione solo se si è sempre in presenza di una chiara e netta separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro e solo fin tanto che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ed è proprio per questo motivo che non si può derogare in alcun modo alla interpretazione consolidata che considera «i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione» come «gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva» e con «contenuti (anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall’esterno nella determinazione del salario». Nessuna attività di contrattazione – né individuale, né collettiva – potrà mai essere sottratta, pertanto, al giudizio di adeguatezza in merito ai criteri fondamentali che presidiano la determinazione del giusto salario costituzionale. Tali criteri (cfr. Cass. n. 24449/2016), «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda», con la proporzionalità che è posta a presidio di «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata» e la sufficienza che prevede che il salario non sia mai «inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo». La proporzionalità opera quindi come «criterio positivo di carattere generale», mentre la sufficienza stabilisce «un limite negativo, invalicabile in assoluto». In tal senso, chi dovrà giudicare in merito all’adeguatezza di un trattamento salariale non potrà mai «sottrarsi a nessuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici sulla cui base deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione».

Relatività della presunzione di adeguatezza dei minimi salariali della contrattazione collettiva Va ribadita dunque, con forza, «la comune interpretazione mai derogata» dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, «il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una presunzione relativa di conformità a Costituzione», in quanto tale, «suscettibile di accertamento contrario». In definitiva, «considerata l’inderogabilità dell’art. 36 Cost.», il giudice dovrà applicare sempre e comunque «la sperimentata regola della presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale».

Sul punto, la S. C. precisa anche come talvolta la giurisprudenza di merito sia incorsa in un errore di interpretazione che bisogna invece assolutamente evitare: non è vero che il giudice può intervenire sul salario applicato solo «in mancanza di una specifica contrattazione di categoria» ma è vero, al contrario, che l’autorità giudiziaria può intervenire «anche “nonostante” una specifica contrattazione di categoria». Tale errore nasce da una equivoca lettura di Cass. 7528/2010, sentenza nella quale «il riferimento alla mancanza di una specifica contrattazione di categoria» non è affatto il «presupposto del potere determinativo del giusto salario ex art. 36 Cost.», dato che, in quel caso, era semplicemente accaduto che «il datore di lavoro non aveva applicato alcun contratto collettivo». Nella massima enunciata nel 2010, insomma, questo riferimento opera come mero obiter dictum, mentre ciò che rileva è appunto la possibilità di «utilizzare alla stregua dell’art. 36 Cost. la disciplina collettiva di un settore – diverso da quello in cui di fatto ha operato il datore di lavoro – a semplici fini parametrici o di raffronto», ferma restando poi la possibilità di sindacare, in concreto, l’adeguatezza della retribuzione pagata al lavoratore, secondo i due parametri costituzionali fondamentali della proporzionalità e della sufficienza.

Nella fattispecie che è oggetto del giudizio in commento si riscontra invece un’altra e diversa tipologia di intervento: «il giudice deve sottoporre a valutazione un salario determinato a mezzo di una contrattazione collettiva che il lavoratore deduce essere in contrasto con l’art. 36 Cost.». In questo caso, quindi, il salario da vagliare rispetto ai parametri costituzionali preminenti è quello del CCNL di categoria scelto e applicato dalla parte datoriale. Nondimeno, «non muta la regola di giudizio sempre affermata da questa Corte (Sez. Unite 2665/1997; Cass. n. 7157/2003, 9964/2003, 26742/2014, 4951/2019), dovendo applicarsi comunque l’orientamento che pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL non esclude di sottoporli a controllo e di doverli disapplicare allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice». E, d’altra parte, nella ben nota e assai risalente pronuncia della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 106/1962), relativa alla «proroga della Legge Vigorelli», finalizzata all’estensione dei «minimi contrattuali erga omnes per legge», la Consulta ha espressamente sancito che «non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario».

Poteri del giudice nella determinazione del giusto salario ex art. 36 Cost. – La Corte Costituzionale ha da sempre sostenuto che il «salario minimo costituzionale delineato nell’art. 36, integra un diritto subiettivo perfetto» (cfr. Corte Cost. n. 30/1960). Questa disposizione della Legge Fondamentale della Repubblica ha quindi contenuto immediatamente precettivo, con indicazioni che sono «idonee a conformare le clausole relative al corrispettivo del lavoro contenute all’interno di ciascun contratto di lavoro». Naturalmente i primi destinatari del precetto costituzionale sono «anzitutto gli agenti negoziali (associazioni sindacali e datoriali) in quanto massima autorità salariale». Anche il legislatore, in tal senso, è tenuto a «operare politiche di valorizzazione e di sostegno al reddito in funzione della promozione individuale e sociale dei lavoratori e delle indeclinabili esigenze familiari a cui lo stesso reddito deve far fronte». L’intervento del giudice avviene quindi a valle, «in ultima istanza, per assicurare, nell’ambito di ogni singolo rapporto di cui è chiamato a conoscere, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello generale nella normativa costituzionale». In estrema sintesi, a fronte di eventuali violazioni del precetto costituzionale, il giudice dovrà pertanto intervenire per «ripristinare la regola violata», con dichiarazione di «nullità della clausola individuale» (art. 2099 c.c., comma 2) e conseguente provvedimento di «quantificazione della giusta retribuzione costituzionale» (art. 1419 c.c., comma 1), applicando, in sostanza, le relative «regole civilistiche».

Gli Ermellini, sul punto, ribadiscono che «in sede di applicazione dell’art. 36 Cost.», i giudici di merito godono, proprio «ai sensi dell’art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione». Ciò permette loro di potersi discostare «(in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva», e di utilizzare altresì anche «criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione». Il potere giudiziale di intervento ai fini di un adeguamento della retribuzione ai parametri costituzionali di riferimento è dunque vasto e incisivo «e la sua determinazione, se effettuata nel rispetto dei criteri imposti dall’art. 36 Cost., e con adeguata motivazione, in ordine agli elementi utilizzati, non è censurabile neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva (v. Cass. nn. 19467/2007, n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985)».

In via esemplificativa, ma non esaustiva, «nella variegata casistica giurisprudenziale si registrano, alla luce dei fatti concreti, frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, essendo sempre stato inteso, quello del riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria, come una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito». Conseguentemente, di volta in volta, il giudice potrà: a) «individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale»; b) desumere da un CCNL, considerato non applicabile, «i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice»; c) «selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. nn. 19284/2017, Cass. 2758/2006, Cass. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004)»; d) «motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 1987/2791, Cass. n. 1985/2193, Cass. n. 24449/2016)»; e) considerare «legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’art. 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”», in tutti quei casi in cui ci si trova di fronte a un persistente «mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita» (sul punto, cfr. Cass. 24449/2016).

Attualità del working poor – È appena il caso di ricordare che l’art. 36 Cost. ha lo scopo primario di sottrarre alle dinamiche meramente contrattuali – che sono in ogni caso frutto di rapporti di forza, tanto sul piano collettivo, quanto (e a fortiori) su quello individuale – gli elementi essenziali di un’esistenza libera e dignitosa, ovvero un giusto rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro e una paga, per il lavoro svolto, che permetta di poter acquistare beni e servizi che non garantiscano solo la pura e semplice sopravvivenza del lavoratore. Nota l’enunciazione di principio, naturalmente, poi, occorre avere dei criteri il più possibile oggettivi per la determinazione di minimi salariali adeguati e sempre in linea con i frequenti aumenti del costo della vita.

La Corte, con specifico riferimento al fenomeno dei working poors, rinvia per i dati statistici al «XXII Rapporto INPS, pag. 99 e ss. presentato al Parlamento il 13 settembre 2023» e, poi, svolge una analitica disamina della situazione nazionale che ha determinato una sempre più vasta diffusione del c.d. “lavoro povero”, ovvero di quella «povertà nonostante il lavoro», innescata principalmente dalla «concorrenza salariale “al ribasso”», causata da vari fattori ma, soprattutto, «dalla molteplicità dei contratti all’interno della stessa contrattazione collettiva», ciò che inevitabilmente crea una forte «tensione con il principio dell’art. 36 Cost.», col risultato paradossale che tocca, poi, ai tribunali sopperire alle carenze di certi CCNL per riuscire, in ogni caso, a «garantire il valore della dignità del lavoro».

In estrema sintesi, i fattori di crisi richiamati dalla S. C. sono questi: a) rappresentanze sindacali frammentate con «la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di “contratti pirata”)»; b) superfetazione «della contrattazione, dei settori e delle categorie»; c) «conseguente proliferazione del numero dei CCNL», con il CNEL che «ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti»; d) sempre più ampia diffusione «del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro», che si traduce in una vera e propria «mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi»; e) blocco dei rinnovi dei CCNL scaduti (il 60% del totale, stando ai dati CNEL), col ben noto effetto di impoverimento che ne consegue, in termini di «perdita del potere di acquisto dei salari», fenomeno questo che oggi è aggravato dalla «dinamica inflazionistica severa», che si è registrata «negli ultimi due anni».

Proprio per questo, «l’oggetto dell’intervento giudiziale può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza», laddove questo è, appunto, in concreto inferiore al minimo costituzionale garantito ex art. 36. Nello specifico, la Corte ricorda come il tema sia stato già oggetto di diverse sentenze – «si veda da ultimo Cass. n. 17698/2022 (che richiama le convergenti pronunce di questa Corte nn. 4622/2020, 4621/2020, 9862/2019, 9005/2019, 7047/2019, 5189/2019)» – e «con precipuo riferimento alla fuoriuscita dal CCNL Servizi fiduciari», il richiamo espresso è alle considerazioni svolte in tal senso da «Cass. n. 20216/2021».

La S. C. aderisce quindi al consolidato orientamento testé richiamato e con la ferma intenzione di tener fede al «monito (Cass. 01/02/2006, n. 2245, Cass. 14.1.2021 n. 546) secondo cui il giudice deve sempre approcciarsi alla contrattazione collettiva “con grande prudenza e rispetto”, attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale», principio fondamentale questo che oltre a essere «garantito dalla Costituzione», lo è «anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (v. spec. Corte EDU, Demir e Baykara c. Turchia (GC), n. 34503/97, 12 novembre 2008)».

Nondimeno, «nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale». La contrattazione collettiva ogni qual volta «sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza», di fatto, abdica «alla sua storica funzione», ovvero quella di «contrastare forme di competizione salariale al ribasso» (cfr. Corte Cost. n. 51/2015, relativamente ai minimi retributivi da garantire al socio lavoratore di cooperativa). Se «la presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o nulla rappresentativi» diventa fonte di impoverimento per i lavoratori di quel settore fin sotto la soglia di dignità, chiaramente, quel CCNL dovrà essere disapplicato e il giudice potrà intervenire in funzione suppletiva per la determinazione in concreto del giusto salario costituzionale.

Principi fondamentali delle convenzioni OIL e parametri quantitativi – Con specifico riferimento al settore che qui ci interessa – ovvero quello delle cooperative con soci lavoratori – l’ordinanza n. 17698/2022 della Suprema Corte «ha richiamato la previsione del salario minimo legale (suggerito dall’Organizzazione internazionale del lavoro – OIL, come politica per garantire una “giusta retribuzione”), insieme alle norme interne sul salario legale dettate per i soci lavoratori di cooperative attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa (L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e del D.L. 48 del 2007, art. 7, comma 4, convertito in L. n. 31 del 2008)».

La Corte evidenzia, in proposito, come «da quasi un secolo la convenzione OIL n. 26 del 16 giugno 1928 prevede l’introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali “mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi” (art. 1)» e, in tal senso, in ambito sovranazionale si registra una sostanziale convergenza di diverse fonti sui principi fondamentali: sempre in ambito OIL, la Convenzione n. 131/1970 – «che l’Italia non ha ratificato» – promuove l’impegno delle parti aderenti alla definizione normativa di «un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti (art. 1), aggiungendo che “I salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati” (art. 2)». Disposizioni simili si possono nell’«art. 4 della Carta sociale Europea e negli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea». La Corte menziona anche il «Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017, che nel punto 6, lettera a) prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) impegna all’implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia».

Sul piano della quantificazione di questi principi fondamentali condivisi, in relazione ai minimi retributivi da garantire a tutti i lavoratori, la Corte individua come parametro standard «i criteri, menzionati nel considerando n. 28 (e richiamati anche nell’art. 5 della Direttiva), a proposito degli indicatori e valori di riferimento associati per orientare la valutazione degli Stati circa l’adeguatezza dei salari minimi legali». La normativa di diritto europeo fa infatti espresso riferimento agli «indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale», ovvero a parametri scientifici di carattere economico e statistico, «quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio», ovvero, se si ritiene più opportuno un parametro che si riferisca al valore monetario concretamente spendibile da parte di ciascun lavoratore, al «rapporto tra il salario minimo netto e il 50% o il 60% del salario netto medio». La Corte precisa anche che, per il dato nazionale «utile allo scopo», una «individuazione percentuale del salario medio e/o mediano» può essere fatta con specifico riferimento ai «dati Uniemens censiti dall’INPS» nel già citato rapporto statistico annuale elaborato dall’istituto previdenziale. Il giudice nazionale potrà dunque fare espresso riferimento a questi parametri quantitativi oggettivi, «ai fini della complessiva valutazione di conformità nei termini equitativi richiesti da questa giurisprudenza ex art. 36 Cost., anche ai sensi dell’art. 432 c.p.c.».

La direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 e il giusto salario del socio lavoratore di cooperativa – La direttiva europea in parola dà dunque copertura normativa all’utilizzo degli indicatori statistico-economici come parametro per la determinazione di una misura attuale e oggettiva del salario minimo, come frazione del salario nazionale medio o mediano, tenendo sempre a mente che – in estrema sintesi – il primo esprime la mera media aritmetica dei diversi dati analizzati, mentre il secondo individua il valore di mezzo tra tutti gli elementi considerati. Un esempio estremamente semplificato può essere utile a chiarire bene il punto: se ci fossero solo tre livelli salariali mensili, pari rispettivamente a 1.000, 1.200 e 3.800 euro lordi, il salario medio nazionale lordo sarebbe pari a 2.000 euro al mese, mentre quello mediano sarebbe 1.200. L’esempio, nella sua semplicità, ricalca la differenza tra salari medi e mediani nazionali (cfr. Fig. 2 a pag. 4 del rapporto INAPP presentato alla Camera), con la mediana che registra regolarmente livelli più bassi di quelli medi.

Sul punto, la Corte ricorda che la direttiva UE 2022/2041 ha come suo «primo obiettivo dichiarato» il raggiungimento di una «convergenza sociale verso l’alto» (cfr. art. 1, comma 1) dei minimi retributivi. La normativa di diritto europeo «vuole perciò un miglioramento dei minimi più bassi, perché si avvicinino ai più alti» e utilizza una terminologia che ricalca quella del nostro art. 36 Cost.  («si precisa che i minimi debbono essere “adeguati” per conseguire “condizioni di vita e di lavoro dignitose”»). In particolare, la Corte sottolinea alcuni richiami espressi, fatti nel considerando n. 28. In primo luogo, «un paniere di beni e servizi a prezzi reali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso». Secondariamente, per meglio definire le caratteristiche del «livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato», la normativa eurounitaria afferma che «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali». Da ultimo, la Direttiva con specifico riferimento ai «parametri utili per determinare l’adeguatezza del salario», menziona espressamente gli «indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere d’acquisto dei salari minimi». Beninteso con la soglia monetaria di povertà come limite al di sopra del quale va fissata la soglia monetaria che permetta appunto a ciascun lavoratore di vivere «un’esistenza libera e dignitosa».

Alla luce di quanto la S. C. ha qui evidenziato, con dovizia di particolari, è del tutto evidente che il già menzionato rinvio normativo ai CCNL di settore, per la determinazione dei salari dei soci lavoratori di cooperativa, non può essere interpretato come «un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva». In definitiva, «anche i salari dettati dalla contrattazione collettiva applicabile alle cooperative, secondo la L. n. 142 del 2001 e la L. n. 31 del 2008, possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo, che rispetti il minimo costituzionale (in questi termini da ultimo v. le già citate Cass. nn. 17698/2022, 4622/2020, 4621/2020, 9862/2019, 9005/2019, 7047/2019, 5189/2019, n. 20216/2021)». La Corte ribadisce anzi che se si volesse sostenere, al contrario, che «la parte retributiva del contratto collettivo di diritto comune, sulla cui scorta viene determinata la retribuzione, si sottragga al sindacato del giudice e si imponga sempre e comunque», si incorrerebbe in «una duplice censura di incostituzionalità: sia sotto il profilo della violazione dell’art. 36 Cost., sia sotto il profilo dell’art. 39 (come risulta dalle due già citate sentenze della Corte Cost. 51/2015 e 106/1962)». Proprio perché è possibile e fattualmente ricorrente la circostanza secondo cui anche nella contrattazione collettiva si registrano clausole retributive che sono in concreto inferiori ai minimi costituzionali garantiti, permane «la necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione», che permetta di poter assicurare a ciascun lavoratore «un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale». Il giudice del merito, pertanto, non può mai far mancare questa funzione suppletiva e di garanzia dell’attuazione in concreto del precetto costituzionale ex art. 36 e l’unico elemento di criticità, in questa lettura, potrebbe essere «il problema dell’orientamento della sua discrezionalità motivata». Problema, tuttavia, ragionevolmente risolto col richiamo parametrico agli indicatori economico-statistici, che gode adesso anche di piena copertura normativa, a seguito della emanazione della Direttiva UE più volte citata.

Per tutte queste ragioni, i cinque motivi di ricorso – esaminati in maniera unitaria, «per la connessione delle censure sollevate» – sono senz’altro fondati e il ricorso del lavoratore merita pieno accoglimento, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d’Appello, «in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità».

Nella determinazione in concreto del giusto salario costituzionale ex art. 36 – compito che il collegio del gravame della sentenza cassata non ha assolto – la Corte territoriale del rinvio dovrà attenersi ai tre principi di diritto enunciati in massima.

 

Le massime

  1. Nell’attuazione dell’art. 36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.
  2. Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
  3. Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, comma 2 c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 (Cassazione, massimario).

 

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