Licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage: il lavoratore ha diritto alla tutela “reintegratoria”

La Suprema Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 33341 dell’11 novembre 2022, ha ribadito l’orientamento già emerso con le pronunce nn. 21468 e 21470, entrambe pubblicate in data 06/07/2022, confermando così che laddove la sentenza impugnata – a seguito di una sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità – abbia negato la tutela reintegratoria «sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall’ordinamento», il relativo capo dovrà essere cassato «per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo».

L’intervento della Corte Costituzionale richiamato dall’ordinanza in commento è la sentenza n. 125/2022, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 25/05/2022, con la quale la Consulta ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), limitatamente alla parola ‘manifesta’».

La Consulta, in estrema sintesi, ritorna – a distanza di poco più di un anno – sulla disciplina dei rimedi all’illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come modificata dal legislatore del 2012 con la c.d. Legge Fornero.

Con la sentenza n. 59/2021, infatti, la Corte Costituzionale aveva già censurato la norma nella parte in cui prevedeva che il giudice, accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, potesse applicare o meno la tutela reintegratoria (o reale), anziché concederla in ogni caso. Questa scelta legislativa opera infatti in palese violazione del principio di eguaglianza, dato che nei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo l’insussistenza del fatto giustificativo del licenziamento prevede una tutela reale piena. A parità di condizioni non vi è pertanto una valida ragione per rendere facoltativa l’applicazione della tutela reintegratoria solo nel caso dei licenziamenti di tipo economico, tanto più che in questa evenienza l’insussistenza del fatto ha una gradazione ancora più intensa, essendo aggravata nella sua caratterizzazione, definita per tabulas come “manifesta”.

Ed è proprio questa caratterizzazione aggravata che dà luogo al più recente intervento della Consulta. La sentenza n. 125/2022 ribadisce, in primo luogo, quanto già evidenziato nella n. 59/2021, ovvero che la valutazione del giudice «senza sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità» attiene solo alla «genuinità della decisione imprenditoriale», garantendo così che «il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio». In tal senso, la Corte ha affermato che il requisito della manifesta insussistenza è chiaramente indeterminato, prestandosi così a incertezze applicative che conseguentemente produrranno casi di disparità di trattamento. In particolare, la Corte ha sottolineato come tale criterio di valutazione risulti «eccentrico nell’apparato dei rimedi», essendo questo «usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento». In definiva, la disposizione va censurata poiché, facendo leva «su un requisito indeterminato e per di più svincolato dal disvalore dell’illecito», essa determina «un aggravio irragionevole e sproporzionato», per il giudice e per le parti, imponendo «oltre all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto», anche «ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza».

Cass. 33341/2022, quindi, in applicazione della intervenuta declaratoria di incostituzionalità ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte territoriale in diversa composizione, accogliendo il secondo motivo di ricorso del lavoratore licenziato, evidenziando in particolare come «a fronte dell’accertata violazione dell’obbligo di repêchage si sarebbe dovuta disporre la reintegrazione del lavoratore», riconoscendo così «la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo».

Nello specifico, la S. C. ha ribadito il consolidato orientamento – cfr. Cass. n. 5884 del 1999 e Cass. n. 16081 del 2004 – secondo cui, a fronte di una declaratoria di incostituzionalità siamo in presenza di un vero e proprio «dovere della Corte di Cassazione di tenere conto della suddetta dichiarazione», in considerazione del fatto che «anche il giudizio di cassazione pende sino a quando la sentenza non sia stata pubblicata» e tenendo sempre bene a mente che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale».

Da ultimo, va ricordato come gli Ermellini – respingendo il ricorso incidentale di parte datoriale – abbiano anche fatto il punto sulla ripartizione dell’onere probatorio in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e con specifico riferimento alla questione dell’aver correttamente assolto, o meno, l’obbligo di repêchage, in base al quale il licenziamento economico è giustificato se e solo se è comprovata l’«inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (cfr. Cass. n. 24882 del 2017)». Più in dettaglio, la S. C. ha precisato che «in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di ‘repêchage’ del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (cfr. tra le tante Cass. nn. 5592 e 12101 del 2016)». Al lavoratore spetta invece solo «l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto» e quello di «allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo». In definitiva, «sul datore di lavoro incombe la dimostrazione del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore che può essere data con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo (cfr. Cass. n. 23789 del 2019)».

Le massime

  1. In caso di licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 125/2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), L. n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta”, il lavoratore ha diritto alla tutela “reintegratoria” (Lavoro nella Giur., 2023, 3, 264).
  2. Anche nel giudizio di cassazione, qualora sopravvenga dopo la deliberazione della decisione della Corte di Cassazione e prima della pubblicazione della stessa, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge e tale dichiarazione risulti potenzialmente condizionante rispetto al contenuto ed al tipo di decisione che la Corte stessa era chiamata a rendere, sussiste il dovere della Corte di Cassazione di tenere conto della suddetta dichiarazione, posto che anche il giudizio di cassazione pende sino a quando la sentenza non sia stata pubblicata e considerato che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale. Dunque laddove un capo della sentenza impugnata neghi la tutela reintegratoria al dipendente sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall’ordinamento per effetto della pronuncia della corte costituzionale, tale punto va cassato per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo (massima redazionale).