Il recesso ad nutum nella società per azioni che non ricorre al mercato del capitale di rischio

Con la sentenza n. 2629 del 29 gennaio 2024, la Suprema Corte di Cassazione, Sez. I Civile, si è pronunciata in materia di recesso ad nutum nell’ambito delle società per azioni, con particolare focus sulla liceità della clausola statutaria quando la società non ricorre al mercato del capitale di rischio.

Il caso

Con lodo emesso nel 2018, il collegio arbitrale respingeva le domande di un socio di una S.p.A. dirette ad accertare la legittimità del recesso e della liquidazione della quota, oltre interessi e risarcimento del danno.

Il socio ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari per vedere riconosciute le proprie ragioni; nondimeno, anche in questa sede lo stesso si vedeva respingere l’impugnazione.

Premesso che il socio fondava la sua pretesa su di una clausola statuaria disciplinante il recesso ad nutum dal seguente tenore “Anche al di fuori dei casi di cui sopra i soci possono comunque recedere con un preavviso di almeno centottanta giorni: in tal caso, il recesso produrrà effetti dallo scadere dei centottanta giorni”, la Corte territoriale aveva ritenuto detta clausola – introdotta ex art. 2437, co. 4, c.c. – illecita e, dunque, affetta da nullità ex art. 1418 e 1419, c.c. in quanto prevedeva il recesso ad nutum per i soci di S.p.A. costituita a tempo determinato.

Secondo il ragionamento della Corte d’Appello di Cagliari, la previsione di cui all’art. 2437, co. 3, c.c., contempla il recesso anche senza giusta causa e con preavviso solo nelle società costituite a tempo indeterminato; pertanto, atteso che la ratio della riforma del 2003 impone di ritenere il recesso quale tutela del socio dissenziente, la norma sopra richiamata presenta natura eccezionale ed è collegata solo ed esclusivamente alle ipotesi in cui il socio “reagisca” a decisioni e/o ragioni ricollegabili alla vita societaria, restando dunque escluso il recesso ad nutum.

Da ultimo, la Corte territoriale rigettava anche il secondo motivo di ricorso del socio, concernente l’equiparazione del termine di durata particolarmente lungo ad una durata indeterminata, sia perché domanda nuova ed inammissibile ex art. 345, c.p.c., sia perché infondata.

Avverso tale decisione, il socio ricorreva alla Suprema Corte di Cassazione.

La sentenza n. 2629 del 29 gennaio 2024

Con tre motivi di ricorso, trattati congiuntamente dal Supremo Consesso, il ricorrente deduceva:

  • – Violazione dell’ 2437, co. 4, c.c., in quanto la clausola statutaria non è affetta da alcuna nullità in considerazione dell’arbitrarietà nell’interpretazione della norma operata dalla Corte secondo cui il recesso statutario può essere previsto solo in relazione a situazioni di dissenso del socio dalle scelte assembleari;
  • – Violazione o falsa applicazione degli 1418 e 2437, c.c., per avere la Corte vanificato il principio di tassatività delle ragioni di nullità degli atti privati, concedendo nel contempo una “supertutela” a creditori e terzi rispetto al diritto di recedere del socio, in considerazione del fatto che la clausola assolve la sua funzione di pubblicità e, per conseguenza, di tutela, per mezzo dell’inserimento nello statuto ed iscrizione nel registro delle imprese;
  • – Violazione o falsa applicazione degli 12 preleggi, 1362, 1367, 2437, co. 4, c.c., per avere la Corte disatteso i criteri di interpretazione letterale e conservativa dello statuto, essendo la clausola espressamente voluta dai soci in ragione dell’oggetto societario, al fine di assicurare ai soci di minoranza la possibilità di uscire dalla società in qualunque momento quale contrappeso rispetto alla partecipazione del socio “forte”, titolare del 54,50% del capitale sociale.

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, ritenuto fondato.

In primo luogo, la Corte, nel ripercorrere brevemente il sistema normativo del recesso nelle società per azioni, ha precisato che, dal tenore letterale dell’art. 2437, co. 3, c.c., non può univocamente ricavarsi che ulteriori cause di recesso debbano essere singole e specifiche, né che le stesse debbano esclusivamente tutelare il dissenso.

Medesime considerazioni valgono anche in relazione alla richiamata legge delega del 3 ottobre 2001, n. 366.

In secondo luogo, il Supremo Consesso, nell’ambito di un’analisi della ratio sottesa al diritto di recesso, premesso che l’intento centrale della riforma del diritto societario del 2003 tende e persegue l’obiettivo di favorire la competitività delle imprese, ha precisato che una delle più importanti innovazioni in questo senso sia proprio l’ampliamento delle ipotesi di recesso.

Per vero, ad oggi, l’istituto tende ad assecondare la scelta dell’investitore che decida di vendere i propri titoli per ragioni anche diverse ed indipendenti dalle altrui decisioni non condivise; pertanto, il diritto di recesso non è solo finalizzato alla fuoriuscita dalla compagine sociale bensì anche all’ottenimento di un maggiore ascolto del socio, sebbene di minoranza, il quale può utilizzare lo stesso come strumento di negoziazione.

Da ultimo, per ciò che concerne il complesso bilanciamento di interessi tra la volontà del socio di recedere e quello della società di mantenere l’investimento onde scongiurare anche il rischio di departimonializzazione della stessa, i Giudici del Palazzaccio hanno chiarito che sebbene il Legislatore abbia “bilanciato” detti contrapposti interessi, è pur vero che il medesimo abbia riconosciuto all’autonomia statutaria l’introduzione di ulteriori cause di recesso, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

In conseguenza di ciò, rilevato che ad oggi il capitale sociale svolge un ruolo meno decisivo rispetto al passato in considerazione dei molteplici indici normativi in tal senso e che il procedimento previsto per la liquidazione della quota prevede solo come extrema ratio la riduzione del capitale sociale, il diritto di recesso non può più considerarsi norma a carattere eccezionale.

Nel caso di specie, dunque, atteso che la clausola è stata prevista dai soci ed inserita nello statuto con specifico riguardo ad oggetto e composizione della compagine sociale, la medesima è perfettamente valida ed efficace e risulterebbe lesivo dell’interesse del socio impedirne il recesso.

Per questi motivi, la Suprema Corte cassava con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari perché la stessa decidesse in diversa composizione sulla scorta del formulato principio di diritto.

La massima

Nell’ambito delle società per azioni, che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, è lecita la clausola statutaria che, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso”.

 

Scarica la sentenza