L’Ordinanza n. 28959 del 18 ottobre 2023 della Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione offre un interessante quadro di riepilogo sulla questione del “mobbing” in ambito lavorativo. La Corte ha ribadito, in particolare, che per risarcire questo specifico tipo di danno occorre provare la sussistenza di «un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli» per il lavoratore danneggiato. Allo stesso tempo, la S. C. (cfr. Cass. n. 3291/2016) ha ricordato che il datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., «è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”)». Voce di danno autonomo, quest’ultima, risarcibile anche in presenza della prova di una mera condotta colposa di parte datoriale, essendo «il fenomeno dello straining […] una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie» (Cass. n. 32020/2022).
Indice
Con due sentenze penali, entrambe confermate in appello, la lavoratrice Gaia aveva ottenuto la condanna del suo superiore Sempronio rispettivamente dal Tribunale territoriale, per «il reato di lesioni personali colpose in danno della dipendente» (sent. n. 454/2005), e dal Giudice di Pace competente, per quello di «percosse e ingiuria» (sent. n. 20/2007).
Nel correlato giudizio civile per ottenere il risarcimento del danno, la Corte di Appello, respinta «la domanda di risarcimento del danno patrimoniale relativo alle spese mediche sostenute» (in virtù del rilevato «difetto di specifiche allegazioni e prove»), in parziale riforma della sentenza di primo grado, riteneva pienamente provata la «condotta mobbizzante e di dequalificazione» messa in atto dal Sempronio ai danni della sua sottoposta. Disponeva pertanto la condanna, in solido col Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, «al risarcimento dei danni non patrimoniali» per la somma di «Euro 50.455,62 (da cui detrarre, per il solo Sempronio, l’importo di Euro 2.000,00 già liquidato in sede penale), oltre accessori di legge». In particolare, i giudici del gravame hanno dato puntuale riscontro della «condotta illegittima posta in essere dal superiore gerarchico a partire dal primo episodio» e per un periodo prolungato nel tempo, come è emerso in atti non solo dalla duplice condanna penale ma anche «delle deposizioni testimoniali raccolte e del verbale di ispezione eseguita». I colleghi hanno infatti «riferito di insulti, offese, ripetuti mutamenti di ufficio in vari periodi», con conseguente decisione di «segnalare alla direzione la condotta del Sempronio». In tal senso, la Corte d’Appello ha altresì deciso di addebitare alla parte datoriale «oltre alla condotta mobbizzante, la violazione dell’art. 2087 c.c.», dichiarando che «la patologia da cui è affetta la lavoratrice (Disturbo dell’adattamento cronico misto, con ansia e umore depresso e esiti di frattura del soma L1) è dipendente da causa di servizio ed ascrivibile alla tabella B allegata al D.P.R. n. 461 del 2001», con conseguente condanna per il Ministero «al pagamento dell’equo indennizzo in favore della stessa». Nello specifico, la corte territoriale «in base all’esito della c.t.u., ha riconosciuto una lesione dell’integrità psicofisica del 17% ed un danno biologico temporaneo». Per la liquidazione del danno differenziale sono state utilizzate le tabelle del Tribunale di Milano, «provvedendo a detrarre le somme corrisposte dall’Inail per poste omogenee».
Ricorre per Cassazione Sempronio, che articola in quattro motivi le proprie doglianze. Gaia e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti resistono con autonomi controricorsi. Il Ministero propone ricorso incidentale, articolandolo in due motivi. Gaia resiste con specifico controricorso.
L’Ordinanza n. 28959 del 18 ottobre 2023
La Corte dichiara l’inammissibilità di cinque dei complessivi sei motivi di ricorso, partendo da quelli articolati dalla difesa del superiore abusante.
Il primo motivo di ricorso – un vizio di forma – «è inammissibile per mancato rispetto degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4», in quanto l’asserita violazione o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c. – «per avere la Corte di merito omesso di dichiarare inammissibile l’appello sebbene lo stesso costituisse mera riproposizione delle difese svolte in primo grado» – non è stata specificamente documentata secondo i canoni prescritti dal «principio di autosufficienza del ricorso per cassazione» (366 c.p.c) e nel rispetto dell’onere di deposito (369 c.p.c.). È appena il caso di ricordare che per il rispetto del primo canone è necessario e sufficiente che «l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali», mentre per il secondo basta «che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (Cass. n. 12481 del 2022; v. anche Cass., S.U. n. 8950 del 2022; Cass., S.U. n. 8077 del 2012)».
Il secondo motivo di ricorso è, del pari, inammissibile in quanto la denunciata violazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – è stata fatta con specifico riferimento all’art. 116 c.p.c., che «presuppone che il giudice abbia valutato una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014)», e all’art. 2697 c.c. che «presuppone una inversione degli oneri probatori». La difesa di Sempronio contesta, in estrema sintesi, una ipotesi di «travisamento delle prove ed errata ricostruzione dei fatti», così motivata: «le eventuali condotte inurbane, peraltro non provate, non erano dirette nei confronti della Gaia ma erano espressione del carattere del Sempronio, che si è sempre comportato nello stesso modo verso tutti i colleghi, senza vessare alcuna persona in particolare». Questa difesa è inconferente con le disposizioni citate e attiene, in realtà, alle modalità di valutazione degli elementi acquisiti, «profilo su cui il controllo di legittimità può svolgersi solo con riguardo alla motivazione, in termini di violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, oppure nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), attraverso la denuncia di omesso esame di un fatto storico, determinato e avente valore decisivo». In definitiva, le censure del ricorrente si concentrano «sull’apprezzamento delle risultanze istruttorie» e pertanto il motivo risulterebbe in ogni caso inammissibile anche mediante riqualificazione ai sensi del n. 5 del 360 c.p.c. «poiché investe non un fatto storico ma plurimi elementi probatori (attraverso ampi riferimenti alle deposizioni testimoniali) e si colloca pertanto all’esterno dello spazio in cui può esercitarsi il sindacato di legittimità».
Anche il terzo motivo – «violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 1176, 2043, 2236 e 1218 c.c., per travisamento della c.t.u. e conseguente erronea ricostruzione dei fatti» – è inammissibile, in primo luogo, per il già precedentemente rilevato «mancato rispetto degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4», poiché la contestata consulenza tecnica d’ufficio, in relazione a voci di danno riscontrate in un periodo successivo al pensionamento del Sempronio, «non è stata trascritta, neppure nelle parti essenziali, e non è stata depositata», né la sentenza d’appello contiene riferimenti utili per l’esame richiesto. In secondo luogo, la Corte evidenzia che in ogni caso «le residue censure sono anch’esse inammissibili perché mirano, nella sostanza, a sovvertire l’accertamento fattuale eseguito dai giudici di merito, al di fuori dei limiti segnati dal citato art. 360 c.p.c., n. 5». Gli Ermellini, sul punto, hanno avuto cura di precisare che «ai fini risarcitori, ciò che rileva è l’esistenza di un nesso causale tra la condotta illegittima e il danno subito dalla vittima, a prescindere dall’epoca di insorgenza e consolidamento delle conseguenze in termini di inabilità temporanea e permanente». Pertanto, a fronte di una piena prova delle condotte abusanti e reiterate nel tempo messe in atto dal superiore gerarchico a danno della dipendente, «non hanno alcun rilievo, fattuale e logico, l’epoca di pensionamento del Sempronio», così come a nulla rilevano «le assenze della lavoratrice», in quanto queste «non coprono l’intero periodo di cui si discute» e sono peraltro da addebitare «almeno in parte, “alle patologie” derivanti dalle vicende in esame».
La Suprema Corte esamina, poi, l’ultimo dei motivi di ricorso di Sempronio, congiuntamente al secondo del ricorso incidentale ministeriale. Anche questi due motivi di ricorso – per «violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, con il D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, e con il D.M. 12 luglio 2000», ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – sono inammissibili in quanto le censure di entrambe le parti ricorrenti «si incentrano sulla erroneità del documento trasmesso dall’Inail e recepito dalla Corte d’appello, recante i conteggi delle somme spettanti alla lavoratrice», ma anche in questo caso non sono stati assolti gli oneri necessari ai sensi degli artt. 366 e 369 c.p.c. Nessuno dei ricorrenti ha peraltro indicato «se, in quali atti processuali e in che termini abbiano sollevato, nei gradi di merito, i rilievi critici che ora oppongono ai conteggi Inail e che assumono errati (v. Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018 cit.)». In ogni caso, sul punto specifico, dalla documentazione agli atti del processo, emerge chiaramente il dato in base al quale «l’Inail aveva valutato il danno biologico nella misura complessiva del 21% (7% l’esito dell’infortunio e 15% la malattia professionale), con conseguente liquidazione di una rendita, in conformità al disposto del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13».
Da ultimo, l’esame del primo motivo del ricorso incidentale, ovvero quello che offre gli spunti più interessanti sulla questione in oggetto poiché viene espressamente contestata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 2049, 2087 e 2697 c.c., «sul rilievo della non configurabilità, nel caso di specie, di una ipotesi di mobbing, per cui il Ministero possa essere chiamato a rispondere». Nello specifico, la difesa ministeriale «denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., per il difetto di prova, di cui era onerata la lavoratrice, degli elementi costitutivi del mobbing, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2087 c.c.», per la ritenuta mancanza «del requisito di sistematicità e continuità delle condotte poste in essere dal Sempronio», oltre che «dell’elemento qualificante costituito dall’intento persecutorio». La S. C. osserva in proposito che il motivo è infondato in quanto nella sentenza della Corte d’Appello i giudici hanno specificato che «il datore di lavoro ha chiaramente omesso di tutelare la sua dipendente, violando l’art. 2087 c.c.», poiché risulta provato che la lavoratrice è stata esposta «ad una serie di vicissitudini del tutto fuori da uno schema di normali contrasti e incomprensioni che si possono verificare sul posto di lavoro». Il coinvolgimento del Ministero risulta innegabile, dato che, «nel caso in esame, è stato riferito dai testimoni che la direzione dell’ufficio era stata più volte informata dei gravi comportamenti posti in essere dal Sempronio». Sulla base di quanto è documentato in atti, «non può quindi essere negata la responsabilità del datore di lavoro, sia sotto forma di mancata protezione della lavoratrice ai sensi dell’art. 2087 c.c., sia per aver posto in essere direttamente atti dequalificanti nei suoi confronti (privazione di mansioni, ripetuti spostamenti d’ufficio)». In tal senso, è da intendere «anche la mancata attivazione in ordine alla domanda di riconoscimento della causa di servizio presentata dalla Gaia». Sul punto, va ribadito l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo cui «in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c., nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (Cass. n. 3692 del 2023; n. 33639 del 2022; n. 33428 del 2022)». Sulla differenza tra mobbing e straining («condizioni lavorative “stressogene”»), ex multis, cfr. Cass. n. 32020/2022; Cass. n. 16580/2022; Cass. n. 2676/2021; Cass. n. 3291/2016, qui richiamate in massima.
Per tutti questi motivi, la Corte rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale, condannando i ricorrenti «alla rifusione delle spese processuali in favore di Gaia che liquida, a carico di ciascuna parte, in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge», precisando che «ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17», sussistono i «presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per i ricorsi, principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto».
- È configurabile il mobbing lavorativo solo ove ricorrano l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima, mentre può ricorrere una ipotesi di straining solo quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie. Di contro, si resta al di fuori della responsabilità datoriale ove i pregiudizi lamentati dal lavoratore derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili. Ne consegue che non ricorrono le ipotesi di mobbing o di straining ove le condotte datoriali siano caratterizzate dall’essere munite di ragionevoli motivazioni e giustificazione dell’operato ed anche se il lavoratore ha sviluppato, in ragione dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva quale conseguenza di una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dal datore (Cass. n. 16580/2022).
- In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (Cass. n. 3692/2023).
- La giurisprudenza di legittimità ammette che il fenomeno dello straining, costituendo una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, possa essere prospettato solo in appello se, nel ricorso di primo grado, gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing, in quanto non vi è violazione dell’art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute (Cass. n. 32020/2022).
- Il cd. “straining” è ravvisabile allorquando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”, e non quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda (Cass. n. 2676/2021)
- Ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass. n. 3291/2016).