Risarcimento del danno da incapacità lavorativa specifica: il danneggiato disoccupato

Con l’ordinanza n. 4289 del 12 gennaio 2024 (pubblicata il 16 febbraio 2024) la Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ha chiarito che, in applicazione della previsione di cui all’art. 1223, c.c., la necessità che il danno da perdita della capacità lavorativa specifica sia liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa andata perduta a causa dell’illecito o dell’inadempimento, sussiste anche nell’ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza o la positiva dimostrazione che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale.  

 

Indice

 

Il caso

Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza 28 marzo 2018, n. 607, aveva condannato un’Azienda Sanitaria, in solido con il dottore di riferimento, a risarcire un paziente per i danni subiti a seguito della imprudente ed imperita esecuzione di un intervento chirurgico.

Il Giudice di prime cure, in accoglimento parziale della domanda, liquidava il danno non patrimoniale in favore del paziente, tuttavia rigettando il capo relativo al danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica, formulato sul presupposto che il danneggiato – di anni 32 al tempo dell’intervento chirurgico – non avrebbe potuto continuare a svolgere l’attività lavorativa di autotrasportatore che aveva sempre esercitato.

In secondo grado, la Corte d’Appello di Milano, adita dall’Azienda Sanitaria e dal professionista, rigettava la domanda ed accoglieva il ricorso incidentale del danneggiato, riconoscendo allo stesso il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa, in via equitativa.

La controversia giungeva, dunque, alla Suprema Corte di Cassazione, sulla scorta del ricorso presentato dal danneggiato basato su tre motivi.

 

L’ordinanza n. 4289 del 16 febbraio 2024

Con il primo motivo di ricorso, il danneggiato lamentava l’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno patrimoniale da mancato guadagno (comprensivo sia dell’omessa retribuzione che dell’omessa contribuzione previdenziale) per perdita della capacità lavorativa specifica; altresì in via laterntiva, il ricorrente, censurava il vizio motivazionale costituzionalmente rilevante assumendo l’illogicità e la contraddittorietà della statuizione nella parte in cui, da un lato, accertava l’esistenza dei presupposti per la liquidazione del danno di cui sopra, dall’altro, tuttavia, negava il risarcimento.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, il danneggiato deduceva la violazione del principio dell’integralità del risarcimento, postulato dall’art. 1223, c.c. e la violazione dei criteri di liquidazione del danno da mancato guadagno.

Da ultimo, con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente censurava la statuizione con cui la Corte territoriale aveva ritenuto tardiva la domanda di condanna al risarcimento del danno patrimoniale emergente derivante dalle spese mediche e di cura sostenute dopo la citazione introduttiva del primo grado di giudizio.

La suprema Corte rigettava il terzo motivo di ricorso in quanto infondato, mentre accoglieva i primi due, analizzati congiuntamente.

In particolare, gli Ermellini hanno chiarito che, in tema di danni alla persona l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, pur integrando un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, costituisce, tuttavia, un danno patrimoniale ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica.

Invece, il distinto danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell’evento dannoso, va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che il sinistro abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito.

In tal caso, il reddito perduto dalla vittima costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà, un’altra attività lavorativa retribuita.

Questo danno, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 cod. civ., deve essere pertanto liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano.

L’applicazione di questi criteri – secondo i Giudici del Palazzaccio – non è esclusa nelle ipotesi in cui, pur mancando il presupposto della specifica attualità del rapporto di lavoro al momento dell’illecito, tuttavia lo stato di disoccupazione, oltre a non dipendere dalla volontà o dalla colpa del lavoratore, sia inoltre contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l’illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un’attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito.

Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione dichiarava fondato i primi due motivi di ricorso.

 

Le massime di riferimento

In applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 c.c., la necessità che il danno da perdita della capacità lavorativa specifica sia liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa andata perduta a causa dell’illecito o dell’inadempimento (salva l’esigenza di tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere un’altra attività lavorativa retribuita), sussiste non solo nell’ipotesi di cessazione di un rapporto lavorativo in atto al tempo dell’evento dannoso, ma anche nell’ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza o la positiva dimostrazione che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale.

 

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