Separazione con addebito: lecito utilizzare gli screenshot delle conversazioni WhatsApp come mezzo di prova

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13121 del 12 maggio 2023 ha riaffermato alcuni noti orientamenti in tema di onere della prova, in materia di separazione con addebito per inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, precisando, in particolare, come la regola generale che prevede la protezione dei dati personali e la previa acquisizione del consenso per la loro diffusione, trovi eccezione qualora si tratti di investigazioni difensive (ai sensi e per gli effetti della Legge n. 397/2000), ovvero di situazioni in cui le informazioni riservate siano necessarie a far valere o a difendere un diritto, in sede giudiziaria.

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Il caso

La vicenda prende le mosse da un giudizio di separazione tra due coniugi, Caio e Sempronia, in cui il giudice di primo grado rigettava la domanda di addebito, presentata dal marito nei confronti della moglie, per l’infedeltà coniugale di lei che – a detta di lui – avrebbe avuto un ruolo determinante nel causare l’irreversibile crisi della coppia. Il giudice della prime cure riteneva non provate queste allegazioni e pertanto dichiarava la separazione, ponendo a carico del marito «il mantenimento integrale dei figli e il contributo per il mantenimento della moglie, fissato in Euro 900,00 mensili». Nello specifico, la carenza probatoria riscontrata, ad avviso del giudicante, evidenziava questi elementi: a) il Caio non aveva dimostrato la sussistenza del «nesso causale tra l’infedeltà della Sempronia e la crisi coniugale»; b) «le riproduzioni di conversazioni estrapolate dal telefono cellulare della Sempronia, senza il suo consenso ed in violazione della sua privacy, erano state illegittimamente allegate in giudizio»; c) «la prova per testi indotta era inammissibile, perché generica e contraddittoria e quindi non idonea a dimostrare l’incidenza causale del tradimento».

In sede di appello, la difesa di Caio contestava la rilevata carenza probatoria, osservando in particolar modo come, oltre all’errore del giudice sulla pretesa inammissibilità della prova costituita dagli screenshot WhatsApp (immagini di varie conversazioni compromettenti, estrapolate dal telefono della consorte), il dato rilevante era costituito, in ogni caso, dall’assenza di contestazione sull’avvenuto tradimento: Sempronia, infatti, lo aveva pacificamente ammesso, negando solo che esso avesse avuto efficienza causale sulla crisi coniugale. In tal senso, si insisteva, quindi, per la necessità di procedere con la prova per testi, ingiustamente reputata inammissibile dal magistrato, nel primo grado di giudizio.

I giudici del gravame ribaltavano l’esito del primo procedimento, evidenziando in primo luogo che, «nel caso di specie le foto delle conversazioni WhatsApp erano state utilizzate esclusivamente per far valere il diritto del Caio nel giudizio di separazione». Pertanto, nel rispetto del noto dato ermeneutico secondo cui «grava sulla parte che richieda l’addebito della separazione l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale», non era corretta la scelta di non ammettere il mezzo di prova, sulla scorta di una ipotetica “violazione del diritto alla privacy”, per il semplice fatto che la normativa, per tabulas, prevede appunto che, «ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 24 comma 1, lett. f), il consenso al trattamento dei dati personali non è richiesto quando è necessario ai fini dello svolgimento di investigazioni difensive di cui alla L. 397 del 2000 o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria (cfr. Cass. 8469-2020)».

La Corte d’appello, inoltre, reputava superfluo l’esame dei testi in quanto il complessivo quadro probatorio già in atti risultava di per se stesso sufficiente per asseverare la sussistenza del nesso di causalità tra la ormai comprovata violazione del dovere di fedeltà coniugale e la successiva crisi coniugale. Nello specifico, il collegio riscontrava una totale assenza di prove in merito alle affermazioni allegate dalla difesa di Sempronia sia con riguardo alla «circostanza che da oltre 10 anni la coppia non aveva più alcun contatto fisico», sia rispetto al fatto che i coniugi, a detta della moglie, «da due anni dormivano in camere separate sulla scorta di un tacito accordo di non ingerenza nella reciproca sfera privata», sia con riferimento al preteso «logoramento del legame di coppia dopo la nascita della secondogenita». D’altro canto, ad avviso della corte, «l’esistenza di un clima familiare caratterizzato da armonia» emergeva anche dalle stesse allegazioni della difesa di Sempronia, oltre che nei riscontri che si potevano rinvenire, con plastica evidenza, «nelle fotografie prodotte dal Caio». Risultava, invece, pienamente provato il fatto che «dopo il diverbio con la figlia, OMISSIS, durante il quale quest’ultima mostrava al padre ed al fratello alcuni screenshot di conversazioni WhatApp avuti dalla madre con terzi e alcuni suoi video di contenuto pornografico, al contempo confermando di avere informato la madre di essere a conoscenza delle varie relazione extraconiugali che Ella aveva intrattenuto e che intratteneva con altri uomini, la sig.ra Sempronia aveva lasciato la casa familiare, a seguito della conclamata crisi coniugale». Per tutti questi motivi, la corte si pronunciava, accogliendo la domanda di addebito della separazione in capo alla moglie, rigettando, per l’effetto, la domanda di mantenimento e confermando, nel resto, la sentenza gravata. Sempronia presentava, quindi, ricorso in Cassazione ex art. 360 c.p.c., articolandolo in quattro motivi, con deposito di memoria illustrativa. Resisteva Caio, che depositava controricorso.

 

L’Ordinanza n. 13121 del 12 maggio 2023

Con l’ordinanza in commento, la S. C. ha motivatamente rigettato il ricorso, reputandolo inammissibile, confermando con ciò le statuizioni della Corte d’Appello e dunque la legittimità dell’addebito della separazione a carico della coniuge che era venuta meno al dovuto rispetto dell’obbligo di fedeltà.

Nello specifico, l’inammissibilità del primo motivo di ricorso – violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 24, comma 1, lett. f) – trae origine dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali “rationes decidendi“, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass. Sez. Un. 7931/2013; Cass.4293/2016)». La censura mossa dalla difesa di parte ricorrente – secondo cui il collegio del gravame avrebbe «applicato una disposizione abrogata nel 2018, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 101 del 2018, art. 27, comma 1, lett. a), n. 2)» – non è conferente poiché il principio di diritto in ogni caso permane. La S. C., sul punto, è lapidaria: «il riferimento alla legge abrogata non esclude la possibilità di trattare dati sensibili in chiave difensiva alla stregua della Cost., art. 24 e dell’art. 51 c.p. (si veda Cass. pen. 24600 del 2022 sub paragrafi 4.1. e 4.2.), ma anche alla luce delle nuove regolamentazioni emanate dall’Autorità Garante in tema di trattamento dei dati per ragioni di esercizio del diritto di difesa in giudizio». Ma la non rilevanza di questa censura – e, quindi, l’inammissibilità del primo motivo di ricorso – deriva anche e soprattutto dal fatto che i giudici del gravame hanno «motivato rispetto alle suddette conversazioni telefoniche», considerandole senz’altro ammissibili e conformi alla normativa privacy, evidenziando tuttavia, al contempo, come esse non assumessero «particolare rilievo ai fini dell’accoglimento della domanda di addebito della separazione, dal momento che la sig.ra Sempronia aveva ammesso, che la figlia aveva mostrato al padre e al fratello elementi di natura strettamente privata, e non contestato specificamente il tradimento ma solo la sua efficacia causale rispetto alla crisi matrimoniale, asseritamente in atto da epoca precedente». In definitiva, per gli Ermellini «l’interesse della ricorrente a far valere il suddetto vizio» non sussiste poiché la corte territoriale aveva «ritenuto prevalente l’ammissione del tradimento corredata da altri elementi (la denuncia della figlia, la mancata negazione, ecc.)», mentre «la censura articolata dalla ricorrente non si confronta con detta ratio, con la conseguenza che il rilievo è inidoneo a determinare una diversa conclusione della decisione».

Il secondo motivo di ricorso – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. – è invece inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., «per essersi il giudice del merito attenuto al consolidato principio in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di addebito della separazione per violazione dell’obbligo di fedeltà (cfr. Cass. Sez. Un. 7155/2017)». La difesa di parte ricorrente, in sostanza, censurava l’operato dei giudici del gravame, i quali avrebbero «violato la ripartizione dell’onere della prova, non avendo dato alcun rilievo al riconoscimento formulato dal Caio delle circostanze che la coppia dormiva da anni in camere separate e che ciò deponeva nel senso della già intervenuta crisi coniugale». Invero, l’orientamento della S. C. muove in tal senso: chi chiede l’addebito della separazione per infedeltà coniugale dell’altro coniuge ha «l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza»; spetta invece a «chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza», l’onere di «provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (cfr. Cass. 3923/2018; id. 16691/2020; id. 20866/2021)». Avendo la corte del merito rispettato esattamente questo criterio di ripartizione dell’onus probandi, la seconda censura di parte ricorrente è pertanto inammissibile, in quanto «propone solo una rivalutazione del materiale probatorio, inammissibile in sede di legittimità».

Idem dicasi, da ultimo, per il terzo e il quarto motivo di ricorso – rispettivamente «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 151 commi 1 e 2, e 156 c.c.» e «omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione alle istanze istruttorie» – che la S. C. ha considerato «strettamente connessi perché inerenti la valutazione delle prove» e, pertanto, ha congiuntamente esaminato, riconoscendoli ictu oculi come inammissibili.

 

Le massime

  1. È legittima la decisione dei giudici di merito che, richiamando l’articolo 24 comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 196 del 2003 – in base al quale il consenso al trattamento dei dati personali non è richiesto quando è necessario ai fini dello svolgimento di investigazioni difensive di cui alla legge n. 397 del 2000 o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria – hanno ritenuto utilizzabili le foto delle conversazioni WhatsApp utilizzate esclusivamente per far valere il diritto del marito all’addebito della separazione a carico della moglie (Quotidiano Giuridico).
  2. Il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, anche nel vigore della disciplina di cui al D.Lgs. n. 196/2003, non è soggetto alla previa acquisizione del consenso purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta (Famiglia e Diritto, 2023, 7, 677).
  3. In tema di separazione, grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (Leggi d’Italia).

 

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